Novara nel cinema e nella fiction

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  Anche Novara è comparsa,con qualche immagine o con riferimenti,sul grande e sul piccolo schermo.

  1968  film  "La moglie giapponese" di Gian Luigi Polidoro -   dove l'interprete abita in via Garibaldi n.12 a Novara

  1971  film  "La classe operaia va in paradiso" di Elio Petri -girato nella "leggendaria" fabbrica Falconi a Novara
 
  1973  film  "Milano trema:la polizia vuole giustizia"  di Sergio Martino - dove vi sono riprese fatte in vie novaresi

  1980  fiction tv  " Un matrimonio in provincia"  Marchesa Colombi - interamente ambientata e ripresa a Novara




                                                   La moglie Giapponese 




                              

 

TRAMA DEL FILM UNA MOGLIE GIAPPONESE?: 
Il ragionier Taddei, chiamato a sostituire il suo collega Ferrante, improvvisamente ammalatosi, è costretto a compiere, per sistemare alcuni affari di ufficio, un viaggio in Estremo Oriente. Ripercorrendo l'itinerario che il Ferrante era solito seguire, Taddei passa da Tokyo a Hong Kong, da Saigon a Calcutta. Il viaggio sulle prime si presenta piacevole, ma a poco a poco, sia per la sua inesperienza, sia per la sua natura di uomo tranquillo, abituato a rispettare quasi supinamente le regole della società, si trasforma in un incubo. Infatti sbattuto in una realtà diversa da quella cui era solito vivere, è costretto a dibattersi, a capire con maggiore responsabilità ciò che lo circonda: conosce così l'intima personalità del collega, tramite i suoi più disparati traffici illeciti, di cui per caso viene a conoscenza, nota sprovvedute giovinette vendersi per un pezzo di pane, vive per un attimo i drammi della guerra, tocca con mano lo stato di assoluta precarietà in cui molta gente si trova. E' troppo per lui: combattuto fra le inibizioni soppresse e la travolgente realtà, il risultato è un violento choc. La sua vita futura, perlomeno si spera, assumerà un valore diverso.

 
            


  

GENERE: Commedia
REGIA: Gian Luigi Polidoro
SCENEGGIATURA: Rodolfo Sonego
ATTORI: 
Michiko IwasakiLuciana ScaliseMarzia UbaldiMario DanieliPaul EsserLilly LauRenato Navarrini,Michele PietravalleSimonetta StefanelliGastone MoschinAlessandra SerraHuynh Thi ThanhKwan Yuan

                
      

 


FOTOGRAFIA: Benito Frattari
MONTAGGIO: Eraldo Da Roma
MUSICHE: Nino Oliviero
PRODUZIONE: ANGELO RIZZOLI PER RIZZOLI FILM (ROMA), NEUE EMELKA (MONACO)
DISTRIBUZIONE: CINERIZ
PAESE: Italia 1968
DURATA: 115 Min
FORMATO: Colore TECHNICOLOR TECHNISCOPE
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                                  Milano trema:la polizia vuole giustizia


   

Milano trema: la polizia vuole giustizia è un film del 1973 diretto da Sergio Martino, scritto da Ernesto Gastaldi. 

                                          Luc Merenda 

Anteprima nazionale: 1973

Regista: Sergio Martino

Durata: 104 minuti

Generi: Film drammatico, Letteratura gialla

Cast

Luc Merenda

Richard Conte

Silvano Tranquilli                                                        

Martine Brochard

                                             
  http://it.wikipedia.org/wiki/Milano_trema:_la_polizia_vuole_giustizia
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                                            La classe operaia va in paradiso

 

«Autunnoinverno 19701971. La nebbia è quella di Novara, la fabbrica è la famosa Falconi, molti operai sono “operai veri”

http://www.provincia.novara.it/rassegna_stampa/articoli/281108_39.pdf

                                               
  

 



di Laura, Luisa e Morando Morandini

            

 

 

Lulù Massa è un campione del cottimo con cui mantiene due famiglie, finché un incidente gli fa perdere un dito. Da ultracottimista passa a ultracontestatore, perde il posto e l'amante, si ritrova solo. Grazie a una vittoria del sindacato, è riassunto e torna alla catena di montaggio. Con qualche cedimento di gusto, più di una forzatura e rischiose impennate nel cielo dell'allegoria, è un aguzzo e satirico ritratto della condizione operaia e della sua alienazione. Scritto da Petri con Ugo Pirro, è il 1° film italiano che entra in fabbrica, analizzandone il sistema e mettendone a fuoco con smania

furibonda i vari aspetti, compresi i rapporti tra uomo e macchina, tra sindacato e nuova sinistra, tra contestazione studentesca e lotte operaie, repressione padronale e progresso tecnologico. Un Volonté memorabile, una bizzarra Melato, un incisivo Randone. Suscitò molte polemiche, anche e soprattutto a sinistra. Palma d'oro a Cannes ex aequo con Il caso Mattei.

 

 
 

http://www.torinocittadelcinema.it/schedafilm.php?film_id=1415&stile=large

http://youmedia.fanpage.it/video/UO_4QOSwqRlBR_f3

http://www.mymovies.it/film/1972/laclasseoperaiavainparadiso/

 
                               

 

http://it.wikipedia.org/wiki/La_classe_operaia_va_in_paradiso

http://www.bresciatoday.it/eventi/mostre/brescia-ab-arte-mimmo-rotella-giugno-luglio-2013.html
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      RAI TECHE

Un matrimonio in provincia (1980) di Antonietta Torelli Viollier
Sceneggiatura: Gianni Bongioanni - Antonio Calenda - Carlotta Wittig
Regia: Gianni Bongioanni
Cast: Achille Della Seta - Laura Betti - Erica Beltrami - Silvana Fantini - Loredana Martinez - Luisella Banchi - Giuseppe Davi
Puntate: 2
Rete: TV1
Data: 24/02/1980 - 26/02/1980


                                                       

                                                   

Più che di un matrimonio è la storia di un’attesa del matrimonio: dei dieci anni che passano dal momento in cui la sedicenne Denza matura fisicamente e si accorge di essere diventata agli occhi degli uomini un “bel pezzo di giovane”, a quello in cui finalmente si sposa, in ritardo rispetto alle sue coetanee. Al di là di quell’attesa non c’è molto: una vita piatta e ripetitiva, di abitudini borghesi, socialmente ristretta agli incontri in chiesa, alle passeggiate al centro, alle sporadiche visite alle cugine, a rare serate a teatro. A dominare è “l’immensa uggia di quella calma morta, che durava, durava inalterabile”. La noia, ma una noia ben diversa dall’ennui baudelairiana, che era autocompiacimento e autoreferenzialità, chiusura del soggetto al mondo. Qui è il mondo che si chiude al soggetto, in particolare al soggetto femminile, costringendolo suo malgrado in uno spazio limitato, asfittico, irrigidito. Emblematica la collezione di buone cose di pessimo gusto (come le avrebbe definite un altro piemontese, Gozzano) disposte, anzi “schierate”, come reliquie sul tavolo del salotto: “due cerchi di tovaglioli ricamati sul canovaccio, colla scritta ‘buon appetito’; un portasigari di velluto rosso, con una viola del pensiero ricamata in seta; una busta di pelle scura, imbottita di raso turchino, che stava sempre aperta per lasciar vedere una ciotola ed un piattino d’argento”. O le otto sedie della camera matrimoniale, inutili e neppure belle, vecchie soltanto, però sempre perfettamente allineate, “che se per caso una si staccava un dito dal muro o rimaneva voltata anche solo d’una linea verso la sua vicina, il babbo correva a metterla a posto e non era contento se non s’era assicurato che formavano una linea retta inappuntabile”. Persino le lunghe passeggiate che quotidianamente  il padre le infliggeva non portavano altrove, né a nuove esperienze: “S’andava giù giù, lungo una strada maestra qualsiasi, senza scelta, senza scopo; la sua passione era proprio di mettere un piede avanti all’altro, per molte ore di seguito, e di poter dire al ritorno: ‘Si son fatti tanti chilometri’”. Un vagabondare che, ancora una volta, nulla aveva in comune con quello di Baudelaire, del suo flâneur. Baudelaire parlava della metropoli moderna per antonomasia, Parigi; Maria Antonietta Torriani (Marchesa Colombi fu lo pseudonimo che assunse per firmare i suoi articoli e i suoi libri) di Novara, circondata dalle risaie e dalla nebbia, diventata ancora più periferica allora, negli anni successivi all’unità d’Italia, dopo che il centro della vita politica della nazione si era spostato da Torino a Firenze e poi a Roma. Ma di queste vicende, come dicevo, non c’è menzione: la Storia è totalmente assente. E così le avventure. Incluse quelle dell’immaginazione: dei Tre moschettieri per esempio, libro vietato alla giovane Denza, anzi, peggio, vietatosi da sé stessa in anticipazione del veto paterno - “Figurarsi se osavo domandarglielo! E se lui l’avrebbe permesso!”. Una sorta di immunizzazione o autoimmunizzazione contro il cambiamento, quale che fosse, avvertito come una minaccia alla sicurezza della consuetudine; anche al prezzo di immunizzarsi contro la vita. La voce narrante ne è pienamente consapevole, e lo dichiara fin dall’incipit del racconto: “Difficile immaginare una gioventù più monotona, più squallida, più destituita di ogni gioia della mia”. Però non protesta, non si dispera, neppure si compiange. La vera tragedia di questo piccolo romanzo, e la ragione per cui resta, a distanza di più di un secolo (uscì nel 1885) un documento interessante, è l’accettazione della noia come condizione normale, fisiologica, del vivere sociale. Come esercizio di rinuncia, di passività: “Dacché erano scritti e tutti li credevano”, dice dei dogmi della Chiesa, “dovevano essere veri; non avevo neppure pensato che si potesse dubitarne”. Così ogni altro evento della sua esistenza, compresa la scelta del marito. Del resto il matrimonio non avrebbe mutato nulla. Il promesso sposo le annuncia una vita comoda ma isolata: “non è una villeggiatura dove si possano fare degl’inviti, dove ci si possa divertire”; in cambio “si fanno delle passeggiate lungo il giorno” - esattamente come nella casa paterna. Denza non riesce neppure a ottenere di vestirsi, il giorno delle nozze, con l’abito di seta colorata a strascico che le piaceva e che viene bocciato perché “provinciale”. Significativamente, si sposa vestita da viaggio, “come una touriste che si disponesse a fare il giro del mondo”; benché tutti sappiano che non andrà mai da nessuna parte. L’unica ribellione, muta, è quella del suo corpo - il lapidario paragrafo finale, dopo averci rassicurati che tutto è finito bene, che ora ha tre bambini e ha ripreso “l’aria beata e minchiona” di quando era ragazza: “Il fatto è che ingrasso”. Poco comprensibile la decisione dell’Einaudi di ristampare il libretto con la medesima introduzione di Natalia Ginzburg con cui era stato pubblicato nel 1973 nella collana “Centopagine” diretta da Calvino: una testimonianza autobiografica e sentimentale (“rileggendolo, incontravo la mia infanzia in ogni parola”) che aveva senso quando Ginzburg era un’attiva protagonista della cultura italiana ma che non credo oggi riesca a fare effetto su lettori (e non parlo solo dei più giovani) ormai lontani da lei quasi quanto dalla Marchesa Colombi. 

Riferimenti:
- Charles Baudelaire, I fiori del male, traduzione di Giorgio Caproni, testo francese a fronte, Marsilio, pp. 567, euro 32,00.
- Guido Gozzano, Poesie e prose, a cura di Luca Lenzini, Feltrinelli, pp. XL-476, euro 11,00.
- Giampaolo Nuvolati, Lo sguardo vagabondo. Il flâneur e la città da Baudelaire ai postmoderni, Il Mulino, pp. 167, euro 12,00.

Altre opere della Marchesa Colombi:
In risaia, Otto/Novecento, pp. 134
La gente per bene. Galateo, Interlinea, pp. 268
Il tramonto d’un ideale, Tufani, pp. 156    

 

http://www.italica.rai.it/scheda.php?scheda=marchesacolombi_matrimonio_harvard


Maria Antonietta Torriani [1] (Novara, 1º gennaio 1840 – Cumiana, 24 marzo 1920) è stata una scrittrice italiana. Con lo pseudonimo di Marchesa Colombi entrò nella storia del romanzo popolare e del femminismo.

http://it.wikipedia.org/wiki/Maria_Antonietta_Torriani


                                                           
                                                   
                                                                 Marchesa Colombi

 


         

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